La Pasqua del non credente

La Pasqua del non credente

La Pasqua di chi crede è, ogni anno, dai tempi del Concilio di Nicea, spiegata nell’omelia della “domenica” per eccellenza, anzi, del “primo giorno dopo il sabato”.

Ma il non credente che rapporto ha con la Pasqua? Si limita a non parlarne, a contraccambiare un imbarazzato “Buona Pasqua” sottoforma di scatola vuota, anzi, di tomba piena, dal momento che, per lui, da quel venerdì pomeriggio, nessun corpo risuscitò vincendo la morte, nessuna effige fu impressa nella sindone, e nessun risorto apparve mostrando di essere veramente il figlio di Dio e quindi Dio Lui stesso?
Oppure la Pasqua può avere un significato anche per chi non crede?

Per il cristiano, si sa, questo è il fulcro di tutto. Quel ragazzo poco più che trentenne è resuscitato? In caso negativo: “Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede e noi saremmo da compiangere più di tutti gli uomini” (1 Cor 15).

Ma per l’ateo, o l’agnostico, o l’uomo di altre religioni, la Pasqua è solo una sorta di re avvio della natura, una festa di primavera, la festa di Eostre senza Eostre, il giorno prima della scampagnata con picnic, un’occasione per mangiare della cioccolata e discutere se sia o meno lecito abbattere capretti e agnelli o c’è dell’altro?

C’è un motivo, o più di uno, per cui un non credente può celebrare laicamente la Pasqua, cosa che sembra un ossimoro?

Io penso che molti lontani dalla fede in Gesù apprezzino la Pasqua e gioiscano. Gioiscano prima di tutto perchè molti credenti festeggiano qualcosa che a loro è caro. Certo nell’epoca edonista degli egoismi à la carte gioire perchè qualcun altro festeggia qualcosa appare surreale, eppure la riscoperta di una partecipazione empatica a ciò che sta a cuore a chi ci sta a cuore non è cosa da poco. Poi, certo, c’è l’evento che, anche se sembra assurdo, ha molto da dire anche senza la resurrezione.

Se si guarda a Gesù, difficilmente si riesce a non provare ammirazione per la sua figura. Non solo i valori predicati sono praticamente universalmente riconosciuti come una aspirazione cui tendere anche laicamente, ma soprattutto questo è avvenuto in un’epoca in cui quegli ideali erano tutt’altro che riconosciuti.

L’uguaglianza, anzi, la fratellanza di tutte le persone, il perdono, l’amore disinteressato, l’astensione dal giudizio, la mitezza, l’autocritica, ecc. Si pensi solo all’umiltà, un disvalore per la mentalità dei romani, che al contrario considerava un pregio l’orgoglio.

Ma soprattutto colpisce di Gesù il coraggio di lasciare una buona posizione lavorativa col padre per dedicarsi alla predicazione e, quindi, la coerenza, la disponibilità a morire per ciò in cui crede: “Non lo sai che ho il potere di liberarti o condannarti a morte?” e lui che non rinnega il suo credo e per questo accetta la morte più ignobile, fuori dalla città, per non contaminare la brava gente.

E poi certo ci sono i suoi seguaci che, nell’ottica di un ateo, dovrebbero essere visti con ancora maggior stima e considerazione rispetto a quanto li venerano i cristiani. Perchè, una volta che si sono accorti che il loro maestro è morto, non si lasciano scoraggiare ma continuano la predicazione, ben consapevoli dei rischi cui vanno incontro (e infatti moriranno tutti ammazzati), per poter proseguire il sequel di una dottrina che evidentemente aveva anche molti lati oscuri (partendo dal fatto appunto che Gesù non era risorto e che si sono trovati a dover nascondere il suo corpo e poi a raccontare di averlo visto in diverse circostanze per rendere credibile il messaggio del vangelo altrimenti evidentemente con poco appeal).

La narrativa della Pasqua è poi un racconto di psicologia dove non solo i personaggi protagonisti come Maria riassumono i ruoli che personificano (in questo caso il dolore sensoriale delle madri) ma dove anche le più flebili comparse hanno tratti di attualità. Partendo dal processo e condanna a morte per crimini fondamentalmente ideologici (è vero che andava contro al Senato di Roma chi si proclamava re, ma Gesù non tentò mai realmente di sostituirsi al potere costituito, anzi, quando lo cercavano per farlo re rifiutava con fermezza e, al contrario, spiegava che il suo regno non era di quaggiù).

Poi appunto ci sono tutti gli attori secondari che esprimo tutto lo spettro dei caratteri: Simone di Cirene, la Veronica, Erode e Pilato che diventano amici (“C’era stata inimicizia tra di loro“), Giuda che con un atto apparente d’amore tradisce per quelli che oggi sarebbero 1500 euro (la paga di allora per un dipendente medio era un denaro al giorno).

Insomma, se si legge con gli occhi del cronista di oggi la Pasqua è una sorta di sintesi dell’umanità con sottigliezze psicanalitiche, si pensi solo al ruolo lungimirante delle donne, esplicitato dalla moglie di Pilato che gli manda a dire: “Non aver a che fare con quel giusto: stanotte sono stata molto turbata in sogno riguardo a lui“. E via via fino alla folla che pochi giorni dopo aver strepitato: “Osanna al figlio di David” bercia: “Non liberare lui, ma Barabba“: i referendum!

Il triduo pasquale è dunque un compendio pedagogico ed esistenziale, i giorni di festa sono anche la festa dei giorni, di tutti i giorni, di tutte le stagioni, di tutti gli stati d’animo così iconogaficamente sintetizzati nelle varie Via Crucis viventi.